Il monumento ai caduti

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Monumento ai caduti in guerra di Frassenè

VENTI VITE INCISE NEL MARMO

Vogliamo ricordarli tutti, per nome e Cognome.

Si chiamavano:
Angelo Gnech, allievo ufficiale
Giuseppe Parissenti, caporale
Francesco Della Lucia, caporale
Federico De Marco
Antonio Rosson
Vincenzo De Marco
Giuseppe Gnech
Ercole Della Lucia
Salvatore De Marco
Davide Parissenti
Ester Della Lucia
Fortunato De Marco, tutti soldati.

Per la seconda guerra mondiale:
De Marco Dino
De Marco Ferruccio
Fontanive Leo
Parissenti Augusto Olinto
Parissenti Giovanni
Parissenti Riccardo
Parissenti Tito Abele
Parissenti Fermo

 

 

 

Inaugurato il 5 giugno 1921, dopo l’officiatura funebre della vigilia ha, con ampio concorso di popolo, il monumento — opera di una ditta di Longarone — è stato riportato all’antica dignità in questi ultimi anni, ad opera sempre di un’azienda longaronese, ( per la quasi totalità offerti all’epoca in piòdego).
Il monumento è ritenuto, nel suo genere, uno dei più imponenti e suggestivi – anche per la “chiarità” dei marmi e della pietra – dell’intero Agordino.
Venti nomi, venti frassenesi caduti per la Patria. Dietro questi venti nomi, dei volti, dei corpi, dei destini, delle storie, delle speranze, delle sofferenze. Venti morti. Giovani in massima parte, con i loro stati d’animo, gli slanci, gli amori, le attese, i problemi di ragazzi, appena o molto cresciuti, pieni di vigoria, contadini tranquilli, boscaioli, muratori, artigiani, impiegati, forestali, che nulla avevano chiesto a nessuno se non di poter cogliere un filo di felicità su questa terra.
I manuali di storia con le loro gelide date, i bilanci d’un conto perdite – profitti spaventoso, le ragioni strategiche, l’enfasi delle idee, delle teorie, delle celebrazioni, sono pallidi riflessi di una realtà. Che è quella – diceva Papini – d’una madre, del suo grido animale quando apprende che uno shnaprel le ha sventrato il figlio sulla pietraia del Carso.

Strappati alle loro famiglie, al lavoro, alla casa natale, al loro paese, e mandati a morire – “noi che tingemmo il mondo di sanguigno”, per citare il padre della nostra lingua – non chiedono monumenti alla retorica, ma di non essere dimenticati. Non lasciamoli morire nei recessi dell’oblio: sarebbe per loro una seconda morte.
Questo forse il messaggio che scende da quei nomi verso i quali – passando – è doveroso sollevare la vista: il ricordo grato e commosso per quelle lontane giovinezze stroncate, la vita che ebbero così poco tempo da vivere e di cui ancora rimane almeno, frammento su candido marmo, un nome e un cognome.

Testo di Paolo Mosca